ciao Flavio: Giorgio Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca, Pietro Cheli ricordano Baroncelli

 
Se n’è andato. L’amato Flavio, persona prima di tutto amabile, di quell’amore d’amicizia di cui non si può fare a meno. Di questi tempi, specialmente. Poi, sì, anche: Flavio Baroncelli, il professore di filosofia, così diverso dalle star filosofeggianti che sfilano ora; e che incantava studenti e colleghi in aula, a un Convegno o al Bar di via Balbi con sintesi fulminee di storia e intrecci del pensiero speculativo. Non sospesi in aria o sulla nube tossica del traffico. Calati nell’oggi, nell’ora, nelle cose e nei casi che ci circondano. Il fatto che la lunga malattia, con gli alti e bassi, minacciasse a intervalli da tempo, non smentisce né attenua l’improvviso dolore per la perdita di una persona di cui immediatamente avverti il vuoto che crea. Il vuoto dentro quella sfera dell’intelligenza coniugata con il buon senso delle cose teoriche e pratiche, che ci sembra ancora –sembrava a lui e a noi con lui, e senza di lui molto meno- l’ultimo argine al dilagare dell’ignoranza e, peggio, del caos mentale. Niente di più costruttivo che il suo allegro, entusiastico scetticismo intorno alle menti confuse degli uomini (studenti inclusi e in prima linea, nessuna concessione al demagogismo accademico, ma la più grande generosità didattica). Non sto qui a elencare i suoi studi. Né a dire delle sue molte collaborazioni ai fogli da edicola: dalla “Voce” di Montanelli, al “Secolo XIX”. Testimoniano, sul versante scritto, di quella che era la sua alta virtù della conversazione orale, innalzata a metodo dialogico, speculazione in pubblico. Dove costringeva l’interlocutore, amabilmente, in forza delle parole e non dell’atteggiamento, a essere più intelligente, a capire i nodi delle idee. L’insegnamento di “Filosofia morale”, di cui teneva la cattedra presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, lo declinava anche così. Magari con l’aggiunta dell’elogio della motocicletta, di cui era appassionato, e a causa della quale ebbe in tempi lontani un incidente grave, in Turchia, di cui sorrideva. E di cui sorride dalle prime pagine del libro che voglio qui ricordare: Viaggio al termine degli Stati Uniti (Donzelli, 2006). Nel suo ultimo libro, appunto, sfruttava il suo viaggio nel Sud degli Stati Uniti –non per turismo o per tournée accademica, ma per curare il terribile male-, come una scanzonata, epperò serissima occasione per descrivere l’aspetto fisico, i volti, i luoghi, gli elettori bianchi e neri di quell’enorme periferia americana per cercarvi la “morale”, ovvero, come s’usa dire oggi con un termine che denuncia quanto siamo estranei a noi stessi, l’antropologia. Naturalmente parlava del meridione degli USA per parlare di noi meridione d’Europa. Qualche mese fa mi chiese ragione della mia lettura del libro. E cercai, in tutta lealtà intellettuale, di non farmi avvolgere dal velo dell’amicizia. L’avevo letto d’un fiato. Un libro fresco di linguaggio, apparentemente colloquiale, sempre sorvegliato e preciso. Era il tuo stile e qui scorreva alla grande. Soprattutto grazie all’intelligenza ironica. Riusciva a non scimmiottare nessuno. Non Tocqueville, né Weber, né Baudrillard. Citava solo Aristotele e Faulkner. E neppure  prendeva gli USA come pretesto per una “storia della filosofia spiegata al mio lattaio”, com’è di moda. Sapeva descrivere la vita del profondo Sud statunitense come ci avesse sempre abitato e, insieme, con gli occhi di un marziano. Piano piano il libro si trasformava da “viaggio sentimentale” alla Sterne o diario intimo, in analisi dei rapporti tra ricchi e poveri, potenti e sottomessi. Di fronte alla grande natura dell’America, il suo credo lo dichiarava: lo spettacolo più affascinante è pur sempre quello degli uomini. E negli uomini, pur scetticamente –come metodo di ricerca della verità o di discernimento delle falsità-, credeva. Che cosa resta alla fine delle fini? Si chiedeva e ci chiedeva. L’uso pratico e morale dell’intelligenza. L’amicizia leale.

Giorgio Bertone, Secolo XIX, 21 febbraio 2007

Vorrei poter scrivere questo pezzo che  ricorda e piange Flavio Baroncelli, come avrebbe fatto lui, magari dicendo, per prima cosa, che, nonostante fosse un professore universitario, per giunta ordinario, Baroncelli era un uomo molto intelligente e ironico. In un ambiente dove c'è in genere più scienza che intelligenza e ironia non ce n'è proprio, Baroncelli ti colpiva per la prontezza dell'una e l' acutezza dell'altra. Si prendano il  suo libro Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del politically correct e i suoi saggi che esaltano la tolleranza e scherzano su chi ne fa un feticcio astratto e un oggetto "di moda" e si avrà facilmente la misura del suo stile analitico- ironico, raro tra i filosofi, per di più "morali", come, accademicamente, lui era da tanti anni (era titolare di Filosofia morale nella nostra Università, dopo aver insegnato la stessa materia a Trieste e in Calabria).
Ancor più esplicitamente parla di lui, fin dal titolo, il suo ultimo libro, scritto quando già aveva cominciato a vedersela con coraggio e lucidità contro la malattia che in pochi anni lo ha stroncato: Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano, una splendida analisi della società americana attuale, vista da un ospedale statunitense per malati di cancro (di qui il doppio valore del "termine" in titolo) con annesso albergo. Flavio racconta la sua esperienza di intellettuale italiano stupito e divertito, ammirato e perplesso di fronte al piglio militaresco- patriottico con cui i malati americani affrontano la battaglia del tumore, cui lui prendeva parte senza eroismi sanitaristici e senza illusioni né consolazioni. Baroncelli raccontava soprattutto dell'albergo, perché in ospedale, osservava col suo solito umorismo, c'era pur qualche persona sana (i medici, gli infermieri ecc.); ma l'albergo abitato solo da malati, fanatizzati dagli psicologi a combattere contro il male come contro il nemico della patria,  sembrava davvero il luogo emblematico di una società americana coraggiosa e puerile, impegnata e vacua, avanzata e sempliciotta: appunto capace di votare Bush e di vantarsene, in un mix di bene e male, di generosità e fesseria, che poi lui notava in tanti aspetti e momenti della vita pubblica negli Stati Uniti.
Flavio era andato negli USA per curarsi. Ma neppure la caparbia efficienza sanitaria degli americani in trincea contro il tumore ha saputo sconfiggere (come lui aveva capito rapidamente) il suo subdolo nemico, che se l'è portato via a soli 62 anni, lasciando nel dolore non solo la famiglia (era originario di Savona), ma tutta la Facoltà di Lettere e Filosofia, che perde uno dei suoi professori più impegnati (aveva presieduto anche il Corso di Laurea in Filosofia), più autorevoli, più amati.

Vittorio Coletti, la Repubblica, 22 febbraio 2007

Quando mi è arrivata la notizia che Flavio Baroncelli aveva chiuso definitivamente il suo dialogo humeano con Caronte, ho sentito la sua voce. Inconfondibile. Ti dava il senso del suo modo di fare filosofia e del tipo di temperamento filosofico che la sua persona esemplificava. Flavio aveva cominciato il suo lavoro di studioso con la pratica storiografica. Il suo saggio su David Hume, l’inquietante filosofo per bene, era stato un contributo importante alla storia delle idee e Flavio si era iscritto prontamente al club degli studiosi del secolo dei Lumi. Ricordo vividamente i nervosi e mitici seminari della Fondazione Feltrinelli di fine anni Settanta da cui nacque la bella impresa della rivista “Studi settecenteschi”. Quell’esperienza di confronto delle idee era assolutamente coerente con un tratto persistente del temperamento filosofico di Flavio. I seminari erano nervosi e appassionati perché si basavano sulla convinzione che le cose veramente importanti fossero i problemi su cui ci affannavamo, e che i problemi fossero a loro volta molto più interessanti delle regole e dei confini disciplinari, delle deferenze e delle buone maniere accademiche. In due parole: esercizi di libertà e di critica e attraversamento di confini, sfuggendo ai pomposi controllori degli accessi ai discorsi bene ordinati. Flavio esemplificava al massimo grado questo atteggiamento intellettuale. Non perché mirasse a ciò. Semplicemente, perché era una persona fatta così. La buona pratica dell’attraversamento dei confini ha indotto Flavio Baroncelli a estendere negli anni Ottanta la sua ricerca storica alle idee politiche e sociali a proposito delle ineguaglianze sociali e, in particolare, della povertà come questione sociale, sullo sfondo dei processi di insorgenza dello stato moderno. Ed è sempre la passione per i problemi, generata da un interesse spregiudicato e intenso per le cose politiche e civili a portare Flavio, sin dai primi anni Novanta, all’esame di questioni difficili nell’ambito della filosofia politica contemporanea. Dalle interpretazioni della virtù elusiva della tolleranza a quelle del rapporto fra usi linguistici e discriminazione sociale, dai dilemmi del multiculturalismo al confronto con l’arcipelago del liberalismo politico. La voce di Flavio è sempre la stessa. Ha lo stesso tono inconfondibile. Un tono che esprime uno strano impasto fra scetticismo, ironia e impegno appassionato, che cattura il lettore di Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del “politically correct” del 1996 e del suo ultimo libro, uscito da pochi mesi, il suo Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano. Un libro affascinante, assolutamente da leggere, perché fa migrare costantemente, con intelligenza, ironia e passione, la lettrice e il lettore dal regno del sapere al regno della conversazione civile. Come avrebbe suggerito l’eroe filosofico di Flavio Baroncelli, il suo inquietante filosofo per bene, David Hume. Il viaggio al termine degli Stati Uniti è un rapporto di ricerca, in cui si intrecciano la vita filosofia e la vita non filosofica di Flavio Baroncelli. Flavio era andato lì, per curare la sua malattia. Era una faccenda di autotrapianto. C’era, in quel periodo di cura, un vorticoso giro di email con le persone cui Flavio era legato. A me è accaduto di aver capito qual è la lezione del professor Baroncelli, leggendo e rileggendo le cose che ci scrivevamo. E ascoltando, così, la sua voce. Ci scambiavamo ballate da Little Rock e rap filosofici. E Flavio manteneva la promessa della sua lezione di libertà intellettuale, di ironia dovuta alla consapevolezza dei limiti dell’attività filosofica e, al tempo stesso, di serietà dell’impegno per le cose politiche e civili. Per modi di convivenza almeno un po’ più decenti. Ciao adesso, Flavio. E grazie.

Salvatore Veca, il Sole 24ore, 25 febbraio 2007


All’inizio degli anni Ottanta, nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Genova, la cosa più facile era passare gli esami (e con una buona votazione). Molto più difficile, negli aristocratici quanto labirintici palazzi ai bordi del centro storico che la ospitavano, scoprire dove fossero le aule (nascoste tra mezzanini e cortiletti remoti), trovare i libri indicati nei programmi (nelle biblioteche come nelle librerie), capire cosa fosse scritto in molti di quei libri, per non dire di quanto veniva spiegato durante le lezioni.
Tutto molto serio, a partire dai corsi intitolati Augenblick e catarsi, al colbacco in testa, al vellutone della giacca, che dai professori venivano trasmessi agli studenti come divisa filosofica. Tutto così serio, che sembrava più che uno scherzo sentire in un’aula interamente affrescata (e interamente délabrè) un professore di Filosofia morale parlare di Pufendorf. All’epoca, va detto, i cartoni con gli omini in blu spopolavano e quel pensatore non sempre citato nei manuali del liceo (si chiamava Samuel, tedesco e nel Seicento aveva contribuito a divulgare il pensiero di Thomas Hobbes) poteva essere il frutto di una fantasiosa invenzione. Era vero, ovviamente, come vera era quella maglietta a strisce orizzontali, un po’ da rugby, che rendeva quel professore diverso dai colleghi.
Era così Flavio Baroncelli, un pezzo unico, dall’intelligenza fulminante – era facile restare affascinati dalla capacità di sintesi quando dopo lezioni e lezioni su Robert Nozick, teorico del liberalismo estremo, diceva "per capirlo però è meglio che vediate i film di John Wayne, spiegano tutto" – attento al mondo e a quanto succedeva facendo sempre rimare malinconia con ironia.
Oltre la Chiesa cattolica, quella marxista e quella esistenzialista spingeva ad allungare lo sguardo oltre Oceano e oltre il territorio del pensiero in senso stretto. "La filosofia? È un genere letterario", spiegava con grave disagio di docenti/studenti in colbacco e vellutone: "Non è serio, non è serio", commentavano a bassa voce, scuotendo la forfora.
Da giovane studioso si era dedicato a David Hume, che lo aveva spinto al dubbio, alla diffidenza per la metafisica e, soprattutto, alla curiosità per la natura umana. Gli piaceva conoscere le persone e metterle in relazione tra loro. Da un terribile incidente motociclistico in Turchia, lui e la moglie, oltre a molte ammaccature, avevano portato a casa un figlio. Poco più che quarantenni si erano trovati di colpo genitori di un ventenne con cui era scoppiata un’intesa travolgente (nessun miracolo, di fronte a un termine così da parte di un allievo il professor Baroncelli avrebbe riso di gusto).
Ridere gli piaceva, anche di sé: sempre a causa di quell’incidente si era ritrovato a fare molta rieducazione alla fine della quale il medico che lo aveva seguito si era sentito in dovere di dirgli che forse, con le conseguenze che portava, avrebbe potuto farsi rilasciare un certificato di invalidità per concorrere ai posti "in quota", magari come bidello. Flavio aveva ringraziato dicendo che era già dipendente statale, trattenendosi dal ridere, come non aveva fatto in seguito raccontandolo. E così era capitato che un’amica narratrice, scrivendo di una storia di normale squallore in una scuola, salvasse solo l’arguto e protettivo bidello Flavio Baroni.
Poteva capitare che parlando con lui si partisse da serissimi ragionamenti su impressioni e idee, dalla religione come paura per passare ai videogame finendo con i viaggi in motocicletta. Con l’impressione che non ti e non si prendesse mai troppo sul serio. Si rideva con Flavio e non ci si annoiava mai. In questo senso era un perfetto collaboratore di giornali – oltre a Diario, tra gli altri La Voce, l’Unità e Il Secolo XIX – per la capacità di scendere in profondità senza far mai sbadigliare. Sapeva scrivere affrontando con competenza, e battute fulminanti, temi paludati: "Chomsky politico ha il vantaggio dell’orologio fermo: ogni tanto gli capita di segnare l’ora giusta", scrisse nel primo articolo per noi nel 1998.
All’epoca, già da qualche anno e ben prima che deflagrassero sulla scena politica mondiale, studiava i neocon, avvertendone il pericolo e la capacità seduttiva. L’America, che aveva scoperto da ragazzo leggendo John Steinbeck, l’America libertaria e l’America che si ripensava, lo affascinava nelle sue contraddizioni come nei suoi chiaroscuri. Nascono così, a cavallo di alcuni viaggi prima come professore all’Università di Madison e poi per curare il male che lo ha lentamente consumato negli ultimi anni, due libri, pubblicati dalla casa editrice Donzelli, i cui titoli sono di per sé ragionamenti: Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del "politically correct" e Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano .
Se c’era un cosa da cui il professor Baroncelli invitava a tenersi lontani era la banalità. Non c’era niente di peggio che presentarsi con un capitolo della tesi e sentirsi dire: "Sì, ben scritto, e ci mancherebbe, lei ha fatto di sicuro un buon liceo, però... è un po’ banale". Voleva dire che era meglio tornarsene a casa. Magari mentre lui, senza cattiveria, ma con ironia, sottolineava: "Perché non si sforza di ragionare un po’ di più?". Sarà fatto, professore.

Pietro Cheli, Diario, n.8/2007







Pubblicato il 09/02/2010
 
© Copyright 2018 Grandi & Associati - Credits - Privacy Policy - Cookies Policy

Grandi & Associati

Agenzia Letteraria

Questo sito utilizza cookies di profilazione
(anche di soggetti terzi).
Proseguendo nella navigazione del sito
l’utente esprime il proprio consenso all'uso dei cookies.

Per maggiori informazioni si rimanda
all’Informativa Privacy estesa e alla Cookies Policy.