IL KARMA DEL GORILLA. un'intervista esclusiva a Sandrone Dazieri

 
IL KARMA DEL GORILLA. un'intervista esclusiva di Sandrone Dazieri a G&A.

Ti stupisce la definizione di classico, SD: il Chandler italiano, o  prendi
le distanze?

Non posso negare che Chandler sia il mio modello, ma guardo a lui in 
alto sull’Olimpo mentre me ne sto genuflesso nella polvere. Posso 
solo dire che come Chandler, più che alla trama gialla, sono 
interessato a descrivere l'ambiente dove il mio personaggio si muove e alle relazioni che intreccia con gli altri, buoni o cattivi che siano. Le descrizioni di Chandler dell’America dei suoi anni sono ora imprescindibili per comprendere la storia di quel Paese.  
Marlowe, poi, al di là di incarnare l’eroe romantico per eccellenza, è quello che voglio siano i miei personaggi: testimoni. Testimoni del nostro tempo e memoria. Però, ripeto, la distanza con il Maestro rimane 
incolmabile.

Col postmoderno saltano gli steccati fra i generi e svaniscono le regole del giallo/nero, oppure sei convinto di no, che esistano ancora delle regole imprescindibili?

Le etichette sono sempre riduttive, ma diciamo che per un giallo, 
credo che l'unica regola sia quella di mantenere fede al patto che si 
stringe con il lettore. Devi disseminare gli indizi al posto giusto, 
e far sì che la conclusione sia logica e replicabile dal lettore, una volta che l’autore gli abbia indicato la direzione ove guardare. Naturalmente, molti giallisti barano, ma se lo fanno bene ti diverti ugualmente. Ecco, se dovessi dare una definizione “ristretta” di giallo direi che è un genere che stuzzica il cervello. Il noir, viceversa, deve stuzzicarti la pancia e l’anima. Più che un genere, è una sensibilità. Lo scrittore di noir guarda il mondo, e ne vede soprattutto i lati oscuri. Possiamo anche dire che mentre il giallo un genere dedicato ai vincenti, ai noiristi invece interessano più i perdenti. Al noir l’uomo interessa quando cade. Per ultimo, ma qui sono partigiano, direi che un grande noir è anche un grande romanzo, un grande giallo di solito no.

E quali sarebbero gli ingredienti per così dire “innovativi” del noir contemporaneo?

Francamente penso che via sia poco di nuovo rispetto al noir dei 
maestri, se non un necessario aggiornamento di ambientazioni e 
scrittura. Molto spesso quello che viene spacciato oggi come noir, 
soprattutto in Italia, altro non è che del buon giallo. O neanche buono.

Può essere  la “pensosità” dei protagonisti, per rubare un termine a Laura Grimaldi?

Francamente non credo. “Pensosità” mi suona sempre come 
“pallosità”…

Oppure la mescolanza di generi/ingredienti, tipo ironico o grottesco?

Un po' di ironia fa sempre bene, ma il grottesco... Se il protagonista cade in un secchio di letame va bene,  ma se cade dal quinto piano e rimbalza contro l’asfalto senza farsi  niente il noir cessa in quel momento di esistere.

E quali sarebbero i più ricorrenti e rischiosi cliché da evitare? Sottinteso: 
visto l’affollamento di noir nostrani.

1) Prendersi troppo sul serio. Sono stufo di colleghi tromboni.
2) Usare il noir come pretesto per scrivere la propria autobiografia 
(un po’ c’è per forza, ma non deve essere un diario. Lo dice uno che 
ha scelto un protagonista con il proprio nome e cognome).
3) Usare il noir per fare dei proclami. Non è compito della letteratura lanciare proclami, ma “essere” un proclama.
4) Dimenticare lo stile.
5) Essere troppo innamorati dello stile.
6) Essere troppo compiaciuti.
7) Copiare (che non vuol dire ispirarsi).
8) Pensare troppo al cinema.


E il noir italiano, al di là delle varianti regionali, per che cosa si
distingue dai celeberrimi modelli Usa o da quelli d’oltralpe alla Izzo o
Manchette?

Di solito è scritto peggio. Ma abbiamo la giustificazione che la nostra è una scuola recente, che è passata dall’essere vilipesa all’essere esaltata, senza vie di mezzo. 

Sei d’accordo che il noir sia il romanzo destinato a essere il 
testimone dei nostri anni, ad aver raccontato il nostro tempo?

Mah. Buona parte del noir nelle librerie è merda e sparirà senza 
lasciare tracce.  Diciamo che il noir brilla in Italia perché la 
letteratura "alta" o "d'accademia", è per lo più è puro e ombelicale 
esercizio di stile. E’ vero che molti degli scrittori che stanno testimoniando il nostro presente sono noiristi, ma non tutti e,  altrove, sono decisamente in minoranza. Citando in ordine sparso: Palahniuk, Wolfe, Coupland, Easton Ellis, Hornby, Foer, Rushdie, King, Auster, Eggers, Flynn, Clevenger, Vollmann, Pelevin, Gibson… Hanno raccontato benissimo il presente senza  fare noir. Oddio, forse molti di loro un po’ di sensibilità noir ce l’hanno, ma il genere è un altro.


Qual è in definitiva il vero karma del Gorilla, così s’intitola il 
tuo libro che esce a giorni.

Il Karma del Gorilla, dove il Gorilla è il soprannome del 
protagonista, altro non è che l'impossibilità a uscire dai binari del 
proprio destino. Il Gorilla, pur odiando quello che fa, il suo 
mestiere, le vicende che lo portano a confrontarsi con dolore e 
morte, non riesce a sottrarsi. Non riesce a smettere di essere 
quello che è.

John Harvey, nei Cuori solitari pubblicati di recente da Giano, tesse un
elogio dell’eccesso come regola numero uno del genere, salvo poi 
mettere al bando ogni tipo di eccesso. Che rapporto c’è tra i due termini nella tua scrittura, più eccesso o più understatement?

Più eccessi. Non a caso ho scelto un protagonista dalla doppia 
personalità che non dorme mai. Un personaggio che non può esistere 
nel mondo reale. Ma lui sopravvive. E il gioco è proprio quello di 
far passare l'eccesso come possibile. Poi sono convinto che occorra 
sempre uscire dai propri confini, spingersi oltre. Sperimentare.
Le mie cose meno riuscite lo sono spesso proprio perché voglio andare 
oltre il cliché, il già tracciato. Per esempio, nel mio secondo 
romanzo, La Cura del Gorilla, che molti mi hanno rimproverato essere 
troppo complicato, ho cercato di rompere una regola standard dei noir 
o dei gialli, quella che dice che se il protagonista affronta due 
indagini, alla fine si scoprirà che i casi sono legati. Ma la vita 
non funziona così. Se la tua ragazza ti lascia lo stesso giorno che 
vieni licenziato, non significa che si è messa d'accordo con il tuo 
capufficio.
Nel Karma, invece, ho cercato di tracciare un bilancio della mia
esperienza politica degli anni ottanta, di parlare dell'Argentina, di 
malattia, di rapimenti della Cia, di amore e sesso. Tutto insieme. E' 
un bell'eccesso, no?


Nei tuoi romanzi trionfano la banalità del crimine e gli effetti 
devastanti su chi gli sopravvive, piuttosto che l’aritmetica degli indizi, il culto dell’investigazione su base scientifica. Attacco alla tronfiaggine della global intelligence?

Più che altro non riesco a mettermi nei panni dei poliziotti. Per una 
buona parte della mia vita sono stato dall'altra parte della 
barricata e continuano a interessarmi più le vittime dei detective. 
Il mio personaggio non crede nella legge e nell'ordine, solo in 
quello che ritiene giusto o sbagliato secondo la sua personale etica. 
Che credo sia condivisa da molti.


Da libro a film, i migliori provengono dai libri, anche di recente, o si
tratta di un luogo comune?

Credo sia un luogo comune. Se penso ai film che mi hanno formato, 
vedo che sono equamente divisi. Alla fine, conta che la storia sia 
buona.

Cosa dici del film che vedrà protagonista il Gorilla? Qualche notizia/indiscrezione?

Essere seduti attorno a un tavolo con produttori, registi, attori e 
sceneggiatori che sezionano il tuo personaggio e le tue storie e ti 
spiegano quello che funziona e quello che no è piuttosto duro. Ma 
corri il rischio di impare qualcosa, se abbassi le difese. Io l’ho 
fatto e credo mi sia servito. E vedendo lavorare Claudio Bisio e 
Stefania Rocca il mio rispetto per la professione d’attore è 
cresciuto enormemente. Quello che ho scritto altro non è stato che un 
canovaccio dove si sono innestate le loro intelligenze e le loro 
sensibilità, oltre allo sguardo originale del regista 
Carlo Sigon.  La cosa bella del cinema, a differenza della scrittura 
di un romanzo, è che un lavoro di team, collettivo, dove 
le intelligenze si compenetrano e si completano. Spero che il film 
piaccia al pubblico quanto piace a me, ma posso affermare senza tema 
di smentita che è un film assolutamente originale rispetto al 
panorama italiano. Un vero noir.

In un’intervista hai detto che al centro del racconto noir c’è 
l’analisi del male e della colpa. Ma colpa è tuttora parola chiave nel noir? Che rapporto c’è oggi tra scrittura nera e psicanalisi?

Spesso ci dimentichiamo che tra noi e gli assassini, gli stupratori, 
i torturatori, altro non vi è che una sottile barriera che ci
protegge dalle parti di noi che ci spaventa guardare. I cattivi dei 
romanzi sono lo specchio dove si riflette quanto teniamo nascosto. 
Siamo noi, senza la patina della nostra cultura e della nostra 
educazione. E più i cattivi letterari si avvicinano alla purezza 
delle pulsioni primarie, più diventano affascinanti e catartici. Il 
vero problema della letteratura di genere italiana è che è culturalmente lontana dall’idea di male assoluto.  I nostri criminali letterari sono grigi peccatori, mentre gli anglosassoni, da bravi protestanti, sono convinti che possano esistere persone predestinate al male. Geneticamente cattive. Segnati dal diavolo. Grazie a questa visione del mondo riescono a costruire cattivi grandiosamente efficaci, dal capo della Spectre che tortura James Bond accarezzando un gatto ai più recenti serial killer.  Il male assoluto trova una perfetta rappresentazione anche nell’archetipo del “doppio”, il gemello cattivo, il bimbo scambiato. Cattivissimo perché nato nel buio invece che nella luce divina. Il doppio ha sempre esercitato un fascino particolare su di me. Lo vedo come un uomo nudo, senza pelle, che mostra all’esterno quello che non osiamo guardare nel nostro animo. Hide è tutto cià che Jeckill vorrebbe essere, ma non osa.

Ancora a proposito del doppio, svelaci altri strumenti del tuo
magazzino/laboratorio narrativo, oltre agli attrezzi più riconoscibili,
ritmo sveltissimo, utilizzo (con cognizione) di tutti i gerghi 
giovanili, scrittura sorvegliata che tiene a bada sia il protagonismo del 
detective sia l’ingenua oggettività del true crime.

Lo strumento che utilizzo di più è tirare fuori quello che 
mi fa male o che mi eccita e metterlo su carta. In questo mi ha 
sicuramente aiutato proprio la psicanalisi, che pratico da anni come 
paziente, e che mi ha permesso di riconoscere e amare il mio doppio, 
pelandomi strato dopo strato. I miei romanzi partono sempre da 
un’urgenza di raccontare qualcosa che per me ha importanza a livello 
emotivo, non intellettuale. La mente arriva dopo, nella costruzione 
della trama, nel far tornare i conti, non nello scegliere la 
direzione in cui andare.
Per quanto riguarda la scrittura, sono certamente un autodidatta 
volonteroso. Leggo, e cerco di capire quello che mi piace e perché mi 
piace, e cerco di imparare la tecnica estrapolandola dai risultati. I 
manuali mi respingono, e purtroppo nessuno ha mai avuto la pazienza di 
prendere quello che scrivevo e di spiegarmi quello che non andava, 
come accade nelle scuole di scrittura. Ho dovuto farlo da solo, 
imparando a fatica, e soprattutto sbagliando. La  scrittura è uno strumento come un altro, che si apprende a usare. 
Quando ho cominciato, talvolta mi scontravo con la mia incapacità a mettere su carta azioni o atmosfere che in mente mi erano invece chiarissime. La frustrazione era tale che mi divertivo poco quando scrivevo. Adesso va meglio, penso di essere 
diventato un buon artigiano. E come ogni artigiano limo e piallo 
finché non rimane solo la parte necessaria.
Scrivo come leggo. Salto quello che mi  annoia e pongo una enorme 
attenzione ai dialoghi, cercando di superare le trappole del verismo, 
che non ritengo adatte al noir, come quelle del letterario, che lo 
snaturerebbero. Cerco anche di essere documentato su quello che 
scrivo. Non descrivo mai luoghi o ambienti che non ho visto di prima 
mano, non prendo mai situazioni o personaggi da altri libri (non a 
livello conscio, per lo meno, anche se ovviamente le letture 
sedimentate fanno parte di me). E cerco di mettere in quello che scrivo una  buona dose di umorismo. Come faccio nella vita.


Pubblicato il 09/02/2010
 
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